Our article published in the Journal of Markets and Morality now avaliable for free!

10 Mar

Hello world,

I just wanted to share with you a good news. An article developing some ideas proposed in our book about metaprofit was published in the Journal of Markets and Morality towards the end of 2016, but now the article is avalibale for free.

So, if you want to download the full article and read it, just click on the link below and enjoy it: http://www.marketsandmorality.com/index.php/mandm/article/view/1190

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Recensione di Fabio Trevisan

13 Dic

Recensione apparsa sulla website del Osservatorio Internazionale Card. Van Thuân sulla Dottrina Sociale della Chiesa.

Recensione di Fabio Trevisan

La collana Quaderni dell’Osservatorio (dell’Osservatorio Internazionale Card. Van Thuan sulla Dottrina Sociale della Chiesa) si impreziosisce con queste stimolanti considerazioni di Giorgio Mion e Cristian Loza Adaui nel solco dellaCaritas in veritate di Benedetto XVI contenute nel libro Verso il meta profit(edizioni Cantagalli). Come infatti ha ricordato nella prefazione S.E. Mons. Crepaldi, Arcivescovo di Trieste nonché Presidente dell’Osservatorio stesso, la parola “meta profit”significa sia “oltre” che “attraverso”superando così la distinzione tra imprese rivolte al profitto (profit) ed altre non finalizzate al profitto (no profit) senza tuttavia identificarsi in quel cosiddetto “terzo settore” cui sembrerebbe alludere la dimensione “metaprofit”. Cosa si intende quindi per meta profit ? Quali prospettive, alla luce della Caritas in veritate, si aprono, soprattutto partendo dalla proposta della priorità del dono?

A questi impellenti e suggestivi interrogativi rispondono gli Autori, aprendo ad un auspicabile dibattito pubblico i temi contenuti nell’agile volume proposto alla riflessione di tutti (specialisti e non). Pur considerando l’ineludibile collegamento impresa-profitto, ha argomentato Giorgio Mion, professore di Economia aziendale, esso non deve rimanere l’unico orientamento della vita dell’impresa, la quale si propone di essere efficiente ed efficace strumento per la persona umana. In considerazione della strumentalità del profitto per raggiungere obiettivi più elevati, ecco che il prefisso “meta” va appunto oltre, non potendo concepirsi come fine ultimo dell’agire, rimandando così ad un’altra categoria logica, la gratuità. Analizzando i presupposti all’origine dell’attività imprenditoriale, constata Mion, si trova un riflesso di un anelito della persona umana alla pienezza di vita. Ponendo quindi al centro il primato della persona umana (nell’unità sostanziale anima-corpo), la dottrina sociale della Chiesa risponde ai veri bisogni dell’uomo; bisogni che sono la causa fondamentale di tutta l’economia umana. Altra condizione imprescindibile del “fare impresa”, rileva Mion, sta nella durevole creazione di valore che un istituto sociale (inteso quale organizzazione di persone stabile) condivide e si impegna di perseguire. Contro la frammentarietà e la provvisorietà della moderna società secolarizzata, intrisa di relativismo e di individualismo, la prospettiva della creazione di valore che si sostanzia nell’impresa permette, citando testualmente Giorgio Mion, di comprenderne anche la dimensione sociale e relazionale, il che non è assolutamente cosa di poco conto. D’altro canto, come ha ben sottolineato Mion, qualora l’impresa distruggesse valore, essa diverrebbe anti-sociale. Non bastano finalità (pur nobili) meta economiche se la gestione non è economica  in quantol’impresa esercita la sua funzione sociale nell’essere propriamente economica, mettendosi a servizio del proteiforme sistema di obiettivi umani. Ecco che allora la questione dell’utilità sociale del’impresa, legata al disegno di Dio sull’uomo, risponde ad una profonda istanza antropologica che, pur partendo da un’attività economica da indirizzarsi secondo le leggi e metodi propri dell’economia, li trascende e li realizza in un’altra dimensione (secondo la dottrina sociale naturale e cristiana). Tutt’altro che da demonizzare, il profitto rappresenta così, secondo le parole di Mion, un utile ed efficace indicatore- seppur non unico – dell’economicità dell’impresa. Il termine “profitto”, scandagliato etimologicamente, rimanda a quel pro facere indispensabile alla saggezza del vivere ed operare quotidiano; costituisce ciò che bisogna mettere da parte “per fare”. In questa prospettiva, asserisce Mion, è opportuno ribadire che i valori meta economici entrano nell’ambito del sistema d’impresa in quanto “valori-obiettivo”,, ponendo quindi una gerarchia funzionale nei valori stessi.

L’importanza della considerazione dell’impresa nella Dottrina Sociale della Chiesa è stata, nella seconda parte del libro, sviluppata da Cristian Loza Adaui, ricercatore negli ambiti del management e dell’etica imprenditoriale, il quale ha opportunamente distinto (mai separandole) alcune considerazioni enunciate nelle Encicliche da Pio XI a Giovanni XXIII, da Pio XII a Giovanni Paolo II.

Interessante lo sviluppo, approfondito da Loza Adaui, che, a partire dal “contratto di società”, fecero nella Germania diretta dal governo britannico (The British Occupation Zone) dopo la seconda guerra mondiale: un nuovo sistema di decisione condivisa e partecipativa (Mitbemistung) tra capitale e lavoro, quale applicazione dell’idea di Pio XI (Quadragesimo Anno) di temperare il pur non ingiusto contratto di lavoro, per la tutela del soggetto lavoratore e della proprietà privata.

Nell’Enciclica Populorum Progressio di Paolo VI, ha sottolineato Cristian Loza Adaui, si è sviluppato il tema della funzione sociale della proprietà privata fino ad approdare, con Giovanni Paolo II (Laborem Exercens)al bisogno di edificare una “cultura del lavoro” capace di integrare le sue dimensioni: personali, economiche e sociali. Ritornando alla recente Enciclica Caritas in veritate, Loza Adaui ha rimarcato il riconoscimento della gratuità nelle relazioni economiche quale elemento innovativo rispetto al magistero precedente. Non solamente rapporti di diritti e doveri regolano l’attività degli uomini, bensì relazioni di gratuità, di misericordia e di comunione.

Come si sostiene nell’Enciclica di Benedetto XVI e come ha ben sottolineato Loza Adaui, l’essere umano è fatto per il dono, che ne esprime ed attua la dimensione di trascendenza. Rivolta alla Populorum progressio,l’Enciclica di Benedetto XVI ha posto la gratuità quale condizione per lo sviluppo integrale; gratuità che, come ha rilevato Loza Adaui, è un concetto scarsamente trattato nella letteratura economica. Gratuità che non può essere equivocata col termine “filantropia”e neppure con il concetto di distribuzione che sta alla fine del processo produttivo, ma che piuttosto entra fin dall’inizio dell’attività economica, qualificandola ed orientandola.

In conclusione, ha sintetizzato Giorgio Mion, la categoria “gratuità”non può essere trascurata … rendendo l’impresa protagonista di un autentico processo di sviluppo.

Sviluppo che non va, sempre secondo Mion, né demonizzato né acriticamente esaltato.

Ecco che allora la stessa idea “meta profit” allarga l’orizzonte e si colora di connotazioni etiche, relazionali, sociali e umane di assoluto rilievo nel riconoscimento della propria responsabilità che rappresenta un fondamento dell’agire eticamente orientato.

Verso il meta profit, il cui sottotitolo (Gratuità e profitto nella gestione d’impresa) rimanda esplicitamente, come è stato detto, alla Caritas in veritate, è un libro che sollecita a “procedere oltre”, ad allargare la ragione, sempre però nella piena consapevolezza della relazione costituiva originaria che lega la persona a Dio, alle altre persone, all’ambiente, per una migliore comprensione di se stessi.

Metaprofit managerial style and the role of gratuitousness for the development of practical wisdom

20 Set

Summary

1. Interpretative paradigms and development of managerial thinking: the limitations of “profit”

2. The Christian tradition: from “Ora et Labora” to “Caritas in Veritate

3. Towards metaprofit as a managerial style

1. Interpretative paradigms and development of managerial thinking: the limitations of “profit”

In order to understand the contribution by the Christian Thought to the development of managerial theories, it appears necessary, in the first place, to make reference to the limitations shown by such theories over the past decades; these “failures” concern only in part the operating tools developed for entrepreneurial governance but their origin is found in the underlying concept of enterprise, i.e. in the interpretative paradigms adopted (Kuhn, 1996; Popper, 1959). The aim of this paper is to start off from such limitations in order to develop a discussion relating to the contribution that the Christian tradition– and, in particular, the Catholic Social Thought – makes to contemporary managerial thinking.

Both managerial theories and other scientific disciplines that have focused on the enterprise have interpreted it as a mere producer of profit for the benefit of stockholders; therefore the enterprise is the tool that an individual (the entrepreneur) or a group of individuals establish for the main purpose of increasing their assets. The goal of the enterprise is, therefore, to “make as much money as possible” (Friedman, 1970), in line with the individual purposes of specific categories of people (Jensen, Mecking, 1976; Jensen, 2002). This egoistic yearning underlying the enterprise is also interpreted as ethically positive, to the extent that only the complete fulfilment of individual requirements allows, as a natural consequence, the achievement of social welfare.

In particular, the development of the principal agent theory and the resulting agency theory is supported by this basic assumption: the essential stakeholder of an enterprise is the owner/stockholder and the business must be conducted in such a way as to generate the maximum profit for said stakeholder. Therefore, it is of little importance if this profit is represented by monetary flows (dividends) or by the maximization of value on the stock exchange.

In the enterprise model devised by the agency theory, the specific responsibility of the managers is to meet the individual profit requirements of the owners, by wisely steering management towards this objective. Within the agency relationship, there may occur potential conflicts between the management and the owners which should, however, be solved by steering the purposes of the agents (managers) towards those of the principal (the stockholder) through the use of economic and contractual tools (Garen, 1994). In other words, should there arise conflicts between the interests of the two categories of stakeholders, they should be solved by acting on the individual motives of the managers and bringing these into line with those of the owners.

It is obvious how the essential lever for acting is the individual profit, towards which the actions undertaken must converge on pain of failure; a “wise” management of the enterprise, therefore, allows to maximize the value for the stockholder, excluding – or restricting as much as possible – the introduction of other goals into the business strategy.

The stakeholder theory, which was developed in opposition to the above approach, goes beyond the monopolistic view of the enterprise as a slave to the sole purposes of the stockholders and includes, among the main players in the business strategy, a number of stakeholders (employees, customers, lenders, sector, etc.) (Freeman, Reed, 1983). The stakeholder theory – which was generated as a strategic approach and later developed as an ethically descriptive approach (Donaldson, Preston, 1995) – considers the enterprise as a wide center of miscellaneous interests, expressed by entities that, in different capacities, enter into a relationship with the enterprise.

Even though it is obvious how the set of purposes included in the managerial responsibilities has widened, it is just as clear that, in the real world, a manager – when called upon to make concrete business choices – will be forced to make a choice and, if faced with irreconcilable conflicts, will favor the specific interests of particular categories of stakeholders while neglecting others.

By looking at the enterprise as a tool for achieving individual economic purposes, there ensues a dominant interpretative paradigm that will guide the various approaches to strategic management. As part of social sciences, it is not possible to interpret the paradigms as having a mere descriptive role, in view of the nature of the phenomena being examined; instead, they tend to modify reality and forge it according to the underlying ideal model.

This results in the belief that, even though certain empirical observations appear to uphold the mainstream theories and, in particular, the view of the principal agent theory, they are significantly conditioned by the benchmark paradigm by which they are examined; indeed, managerial practices and their background philosophy clearly depend on the underlying view of the enterprise and, eventually, of man (Jensen, Meckling, 1994).

In other words, the manager’s role and responsibilities are restricted to a scenario in which egoistic requirements are met to the extent to which the enterprise is seen as a center of individualistic requirements: management develops as a result of the benchmark paradigm and, if the latter considers a human being as an individual prone to the mere satisfaction of its needs, the enterprise management will follow such an approach.

This approach is restrictive and, in many cases, a failure; first of all because it creates ongoing conflicts inside the enterprise and around the enterprise, and such conflicts cannot but hinder value creation.

Moreover, it focuses only on one real aspect of human behavior in the area of the economy, and yet it is incapable of fully describing the economic agent and his behavior. This approach, therefore, cannot provide an effective and in-depth description of reality and guide it consistently.

The age-old Christian tradition and, in particular, the social thinking developed over the last 120 years can offer an interesting contribution to the review of the benchmark paradigm, by shifting the focus from the individual dimension to the person-focused dimension of the economic agent. This allows the restructuring of the view of the enterprise from a community perspective, without denying the existence of individualities focusing on the own good, but at the same time stressing the relational dimension of the individual. The latter can find full satisfaction with its own being only in a social context that strives for the common good, which cannot be described as the simple sum of individual assets.

This paradigm allows to significantly change the view of the enterprise which becomes a community of entities operating towards a common interest[1], in which they recognize a part of their individuality; indeed, no stakeholder, on the one hand, exhausts its personality within the economic activity and, on the other, is excluded from the community of interests which occurs in the enterprise.

Thus the enterprise becomes an independent entity vis-à-vis the single individuals that operate within it and the responsibilities of management may be better identified and limited; indeed, such individuals are responsible for operating in favor of the common good of the enterprise and, ultimately, of the social community that established it[2]. This responsibility is relational – either internally or externally[3] – in nature because it is not predetermined in a static model which may be valid for all circumstances, but is rather dynamic and changes with the changing of the benchmark context, i.e. the features of the benchmark social community, the environmental restraints and opportunities, the requirements expressed by external stakeholders, the long term prospects, etc.

As a result, there exists a different paradigm through which the enterprise may be “viewed” and managed: this paradigm collects and processes the Christian tradition, thus contributing to the development of a wise and far-sighted corporate governance.

2. The Christian tradition: from “Ora et Labora” to “Caritas in Veritate

Therefore, the essential contribution of the Catholic Social Thought to the field of management, does not concern the mere development of moral and good behavior laws, as these fall within the individual choices by single managers or entrepreneurs. Instead, it allows the reformulation of useful benchmark paradigms to observe corporate phenomena (Crepaldi, Fontana, 2006), in such a way as bring about a deep change in the background management philosophy (Lessen et al., 2011; Naughton et al., 2010): this results, as a natural consequence, in individual operating choices. The change in perspective concerning the enterprise and management causes, with a cascading effect, a set of consequences on the corporate governance style that involve the various aspects of management and, in particular, those that entail relationships with employees, customers and suppliers, the sector, etc.

This Christian wisdom regarding the enterprise has its roots in the origins of the evangelical message and, earlier, in the Old Testament tradition; however, an important crucial development – which is a forerunner to a managerial style aimed at the common good – stems from the Benedictine rule which finally turned on its head the view of work in the Western world (Bruni, Smerilli, 2008). Indeed, with St. Benedict from Norcia, work became a spiritual experience and, therefore, an endeavor that qualifies the human being in all its fullness (Mion, 2011).

In summary, the Benedictine monastic rule contains the anthropological view of the enterprise typical of the Christian Thought as it links man’s spiritual dimension to its work: the quality of the latter does not depend (solely) on a moral law steered by others, but rather on the ontological need of a human being to achieve its complete fulfilment in its dual dimension, both material and spiritual. This anthropological view, which is upheld by the Magisterium (Gaudium et Spes, n. 3) is obvious in the rule whereby St. Benedict dictates the pace of the Monastery by alternating prayer and work[4], albeit not diminishing work to an instrumental subject, but rather by elevating its role as an essential factor for being a monk.

The Benedictine perspective of work – especially manual work – was a revolution within Western thinking, for which work was a degrading task left to the slaves, so that time could be dedicated to noble arts, warfare and religious worship. The ethos of work was deeply changed, as it was interpreted as a service to one’s own self for the purpose of completely implementing the divine plan for human beings.

Work was elevated to a liturgical element that concerned the relationship between a monk and God and the community. According to the Benedictine rule, a plough, the traditional symbol of manual work, was not “third party” to the worship of the Almighty, but rather an integral part of it: a monk based his existence around the cultivation – from both a liturgical and study viewpoint – of the Word, and work too became a cultural experience stemming from the encounter with God the Creator.

A further innovative element of the Benedictine rule in the Christian Thought should be added to this: the community dimension of the monastic experience (Galbraith, Galbraith, 2004); this stresses, in contrast with the previous and contemporary hermitic experiences in St. Benedict’s rule, the relational and social element of the human being, whose fulfilment in the ora et labora occurs inside a community that prays and works together.

This results in a view of the human economic activity that is at the same time spiritual, as it elevates man in the relationship with God, and social, because it makes him harmoniously integrated with a community rather than independent from it. Therefore, St. Benedict’s rule overtly introduces a new wisdom in interpreting the relationship between a human being and its economic endeavors: in this relationship man is an entity in touch with the creation, fellow creatures and God and in it he finds the space to completely fulfil himself. The Benedictine monastic experience rather than being an exception, introduces a new way of considering work and enterprise that then became dominant in the early middle ages.

The later development of the Christian Thought depended on the preoccupation with the concept of man-agent and his relationship with the enterprise seen as an institution; this yearning re-emerged in the production of the Magisterium which began with the 1891 Encyclical Rerum Novarum and continued, with varying intensity, throughout the whole of the 20th century.

It is particularly worthwhile to highlight three synthetic elements that emerged with the unraveling of the social thinking and that are useful to comprehend how it can be possible to conceive a management inspired by the Christian anthropological paradigm:

  1. the community view of the enterprise stemming from the social nature of the human being: it views the enterprise as a center where different people with different interests enter into a relationship and a mutual exchange for the purpose of attaining the common good;
  2. the concept of profit as a tool to measure corporate success and not as an independent goal of the enterprise or a particular category of its stakeholders[5];
  3. the preference for cooperation as a style of governance rather than any kind of conflict[6] that denies the community of intents between different stakeholders and focuses on the personal fulfilment as opposed or in alternative to the fulfilment of other entities.

The above considerations give rise to an anthropocentric and relational view of the enterprise, whose features are gradually defined over time, also according to the evolution of managerial thinking; in particular, it is the progressive dominance of individualistic views, typical of mainstream theories, and the failure of the Marxist regimes that fuels the reflection on managerial aspects. In particular, the instrumental concept of profit – which clearly emerged in the 1991 Encyclical Centesimus Annus – looks like a modern amended version of the ancient Benedictine rule: the individual and the community are at the center of the economic discourse rather than a short-term utilitarian goal.

Finally the Papal Encyclical Caritas in Veritate – which has recently been published – re-interprets the changed contemporary reality in light of the essential principles of the Christian Social Thought; whilst not changing the background philosophy, it allows the updating of the invariable principles of social thinking in a context of ongoing change.

From the complex considerations underlying the Caritas in Veritate, we should extrapolate two contributions that are important with a view to reflecting on the role of management:

  1. the introduction of the concept of “gratuitousness” in the enterprise jargon[7]: this is a category already widespread in many social sciences, but to date almost alien to management. This category purports to stress the complexity of the human approach to economic issues; indeed, gratuitousness and economic endeavor are not antithetic concepts, but rather elements that can co-exist in a harmonious dialogic relationship. Gratuitousness – and likewise an efficient organization – contributes to the creation of a fair socio-economic system which is capable of providing a concrete answer to human requirements; it does not hinder the correct performance of economic business endeavors but actually contributes to improve them in terms of responsibility and fraternity;
  2. the recognition of the value of the many organizational forms of the enterprise, which is useful in order to improve market relationships and make the market fairer and more efficient; this results in overcoming the ideal of the large capitalistic enterprise as a privileged way for development, in favor of the introduction of different organizational forms that facilitate civil participation and economic democracy.

Here we can see the emergence of a guiding thread that links the Benedictine rule to the latest Magisterium: the central role of the individual, seen as a complex entity that cannot be restricted to a single dimension, i.e. the economic dimension, not even when it is involved in carrying out economic activities; therefore, on this anthropological view we can build an alternative view of management, driven by human promotion and economic democracy.

3. Towards metaprofit as a managerial style

The age-old Christian wisdom has always encouraged man – seen as a whole entity irrespective of his occupational role (entrepreneur, manager, worker, …) – to “look beyond”, instead of restricting his horizons to contingent circumstances, but rather incorporating them in a wider project; this approach is linked to the observation of the complex world of entrepreneurship that, over the centuries, has developed in a variety of ways. We cannot deny the existence of a plurality of organizational enterprise forms that combine economic goals and social goals: this is not an ideal to be achieved but a widespread modus operandi adopted by cooperatives, social enterprises, non-government organizations, operating foundations, family businesses, craft enterprises and a number of small and medium-sized businesses. Some of these enterprises have developed from the Christian experience of religious orders and movements; many others have originated from the natural drive to social entrepreneurship and cooperation on the part of human beings. It is these latter experiences that reassert the correctness of the analysis that the Catholic Social Thought conducts on the human being and its inner nature.

These models, that are alternative to the large capitalistic enterprise, stand out for the strict link between the economic dimension of the productive activity and the social dimension which underlies the purposes of the agents and the internal and external relationship models. The prospering of civil economic entities, whilst allowing the implementation of a democratic and pluralistic socio-economic system, is evidence of an anthropological-type corporate culture that reveals itself in the various spheres of corporate governance: industrial relationships, investment plans, social communication, relationship with customers and suppliers, sharing resources and skills within the sector, etc.

The observation of the corporate world through the anthropological paradigm stemming from Christian culture allows us to trace a new metaprofit managerial style; this expression purports to highlight the instrumental function of the economic circuits and the relevant value creation vis-à-vis the complete fulfilment of the individual and the social communities. The etymology of the new expression “metaprofit” lies in the dual meaning of the Greek prefix “μετά” as “beyond” and “through” profit generation; therefore it combines the experience of the spiritual dimension of work and the concreteness of social thinking.

The metaprofit managerial style has a clear ethical dimension (Oliver et al., 2010) because it originates from a particular ethos of work and enterprise but also acquires a typically managerial connotation as it does not deny the need of the ongoing strive for economic value creation, but rather it places it in a wider and more complex goal-driven context. As a result, the Catholic Social Thought may interact with managerial disciplines not only as an independent moral approach acting on individual motives, but especially as an approach that adds meaning to the understanding of management and organizations.

Since the interpretative paradigm of reality tends to change reality itself, when the latter consists of social relationships (albeit economic in nature), this contribution concerns the ability to open up managerial disciplines to an ethos-based dimension in order to understand themselves and their role.

Managerial theories are unsatisfactory if they restrict themselves to the ethical dimension, putting forward a technocratic image of themselves and its study objects; this is a reductive and anthropologically damaging logic.

As a result of a restricted view of man, some enterprise theories include, among their basic assumptions, a restricted and reductive view of social organizations as they consider the various “companies” as a disorderly hotchpotch of individual interests that they are then forced to classify in scientific categories; it is obvious that we are dealing with the widening, at a collective level, of the concept of utilitarianism that denies the existence of a common good having independent importance. This latter form of reductionism is in contrast with the social essence of man and the ethical quality of social organizations, as well as with the community enterprise concept.

Gratuitousness, being an essential component of the metaprofit style, stresses that human work and enterprise are the answer to the vocation, typical of man and its humanity, to make use of a gift it has received and which it is not possible to avoid. Gratuitousness is the economic image, so to speak, of charity and as such it is deeply rooted in a human being as the receiver of a gift for which it is responsible; therefore, it is not a moral approach that man may adopt if he accepts a particular value-based approach, but rather a dimension that is attached to his anthropological quality as a creature. The symbolic and relational nature of assets entails that their cautious management is an ethical task that combines economic endeavor and gratuitousness.

Therefore, ultimately, a discussion on the rationale of management cannot be reduced to a merely phenomenological level, as in fact it needs to be opened up to a whole anthropological dimension in understanding the acting entity and, consequently, its economic tool.

In conclusion, we can say that management is not only a technocracy, but it’s also a wise governance of a community. Practical wisdom grows with gratuitousness, because gratuitousness is a responsible management of gift; and a man who can manage a gift, can also manage a firm.

 

References

II Vatican Council, Gaudium et Spes, 1965

Benedict XVI, Caritas in Veritate, 2009

Bruni Luigino – Smerilli Alessandra, Benedetta economia, Città Nuova, Roma, 2008

Crepaldi Giampaolo – Fontana Stefano, La dimensione interdisciplinare della Dottrina sociale della Chiesa, Cantagalli, Siena, 2006

Donaldson Thomas – Preston Lee E., The Stakeholder Theory of the Corporation: Concepts, Evidence and Implications, in The Academy of Management Review, 20(1995)1

Freeman R. Edward – Reed David L., Stockholders and stakeholders: a new perspective on corporate governance, in California Management Review, 25(1983)3

Friedman Milton, The Social Responsibility of Business is to Increase Its Profit, in The New York Times Magazine, September 13th, 1970

Galbraith Craig S. – Galbraith Oliver III, The Benedictine Rule of Leadership: Classic Management Secrets You Can Use Today, Adams Media, 2004

Garen John E., Executive Compensation and Principal-Agent Theory¸ Journal of Political Economy, 102(1994)6

Jensen Michael C., Value Maximization, Stakeholder Theory and the Corporate Objective Function, in Business Ethics Quarterly, 12(2002)2

Jensen Michael C. – Meckling William H., Theory of the firm: Managerial behavior, agency cost and ownership structure, in Journal of Financial Economics, 3 (1976)4

Jensen Michael C. – Meckling William H., The nature of man, in Journal of Applied Corporate Finance, 7(1994)2

John Paul II, Centesimus Annus, 1991

Kuhn Thomas S., The structure of scientific revolutions,3rd edition, The University of Chicago Press, Chicago,1996

Lenssen Gilbert – Malloch Theodore Roosvelt – Cornuel Eric – Kakabadse Andrew, Practical wisdom in management from the religious and philosophical traditions, Journal of Management Development, 30(2011)7/8

Mion Giorgio, La regola di San Benedetto ed il lavoro quale esperienza spirituale, Bollettino di Dottrina Sociale della Chiesa, (2011)4

Naughton, Michael J. – Habisch, Andrè – Lenssen Gilbert, Practical wisdom in management from the Christian tradition, Journal of Management Development, 29(2010)7/8

Oliver David – Statler, Matthew – Roos, Johan, A Meta-Ethical Perspective on Organizational Identity, Journal of Business Ethics, 94(2010)3

Popper Karl, The logic of scientific discovery, Harper, New York, 1959

The Rule of Saint Benedict


[1] «In fact, the purpose of a business firm is not simply to make a profit, but is to be found in its very existence as a community of persons who in various ways are endeavouring to satisfy their basic needs, and who form a particular group at the service of the whole of society». John Paul II, Centesimus Annus, 1991, n. 35.

[2] «Economic activity cannot solve all social problems through the simple application of commercial logic. This needs to be directed towards the pursuit of the common good, for which the political community in particular must also take responsibility. Therefore, it must be borne in mind that grave imbalances are produced when economic action, conceived merely as an engine for wealth creation, is detached from political action, conceived as a means for pursuing justice through redistribution» Benedict XVI, Caritas in Veritate, n. 36.

[3] «The Church’s social doctrine holds that authentically human social relationships of friendship, solidarity and reciprocity can also be conducted within economic activity, and not only outside it or “after” it». Benedict XVI, Caritas in Veritate, n. 36.

[4] «Idleness is the enemy of the soul. The brethren, therefore, must be occupied at stated hours in manual labor, and again at other hours in sacred reading. To this end we think that the times for each may be determined in the following manner. From Easter until September the 14th, the brethren shall start work in the morning and from the first hour until about the fourth do the tasks that have to be done. From the fourth hour until about the sixth let them apply themselves to reading. After the sixth hour, having left the table, let them rest on their beds in perfect silence; or if anyone wishes to read by himself, let him read so as not to disturb the others. Let Nones be said early, at the middle of ther eighth hour; and let them again do what work has to be done until Vespers. But if the circumstances of the place or their poverty require them to gather the harvest themselves, let them not be discontented; for then are they truly monks when they live by the labor of their hands, like our fathers and apostles. Yet let all things be done in moderation of the faint-hearted» The Rule of Saint Benedict, n. 48.

[5] «The Church acknowledges the legitimate role of profit as an indication that a business is functioning well. When a firm makes a profit, this means that productive factors have been properly employed and corresponding human needs have been duly satisfied. But profitability is not the only indicator of a firm’s condition. It is possible for the financial accounts to be in order, and yet for the people — who make up the firm’s most valuable asset — to be humiliated and their dignity offended. Besides being morally inadmissible, this will eventually have negative repercussions on the firm’s economic efficiency» John Paul II, Centesimus Annus, n. 35.

[6] Social teaching of the Church «… recognizes the legitimacy of workers’ efforts to obtain full respect for their dignity and to gain broader areas of participation in the life of industrial enterprises so that, while cooperating with others and under the direction of others, they can in a certain sense “work for themselves” through the exercise of their intelligence and freedom». John Paul II, Centesimus Annus, n. 43.

[7] «Gratuitousness is present in our lives in many different forms, which often go unrecognized because of a purely consumerist and utilitarian view of life. The human being is made for gift, which expresses and makes present his transcendent dimension». Benedict XVI, Caritas in Veritate, n. 34.

Paper presented at the 25th Annual Conference of the European Business Ethics NetworkWork, Virtues and Flourishing. Better people, better organizations, better societies. IESE Business School, Barcelona, September 20-22, 2012 EABIS – The Academy of Business in Society Special Panel on Practical Wisdom for Management from the Spiritual and Philosophical Traditions

Recensione di Omar Ebrahime

30 Ago

Riportiamo una recensione del nostro libro apparsa sul Corriere del Sud il  giovedì 30 Agosto 2012:

Verso il Metaprofit

Recensione di Omar Ebrahime

La recente crisi economica e finanziaria internazionale ha messo in seria discussione prassi e comportamenti che, pur riprovevoli, venivano negli ultimi tempi ormai accettati dai più alla stregua di luoghi comuni intangibili, necessari allo sviluppo. Tra questi, in particolare il fatto che l’agire dell’impresa e dell’attività economico-imprenditoriale in genere si esauriscano nella pura e semplice massimizzazione dei profitti a breve termine. Come invece suggerisce l’ultima enciclica sociale di Papa Benedetto XVI (Caritas in Veritate, 2009), i comportamenti viziosi e, per parlare chiaro, perfino i peccati pubblici di singoli o collettivi non sono mai a costo zero per lo sviluppo umano, neanche in un ‘mercato libero’ come viene definito quello attuale. L’idea, feconda di conseguenze pratiche rilevanti, è ripresa e organicamente sviluppata in questo saggio scritto a quattro mani da Giorgio Mion (docente di Economia aziendale presso l’Università degli Studi di Verona) e Cristian Loza Adaui (dottorando di ricerca presso l’Università Cattolica di Eichstätt-Ingolstadt in Germania) pubblicato nella collana “Quaderni dell’Osservatorio Cardinale Van Thuân sulla Dottrina sociale della Chiesa” di Verona: Verso il metaprofit. Gratuità e profitto nella gestione d’impresa (Cantagalli, Siena 2011, pp. 178, Euro 12,00).

Composto da tre capitoli e una breve conclusione, il volume è introdotto dall’arcivescovo di Trieste nonché presidente dell’Osservatorio, monsignor Giampaolo Crepaldi che, riflettendo sulla Caritas in Veritate vede il messaggio fondamentale dell’enciclica pontificia “nella proposta della priorità del dono [….] dono [che] appartiene per statuto all’attività economica e non solo per concessione” (pag. 9). E’ in quest’ambito che si sviluppa il concetto di ‘metaprofit’: “il prefisso ‘meta’, infatti significa sia ‘oltre’ che ‘attraverso’. Indica che il profitto deve tendere a qualcosa che sta oltre se stesso verso cui ha una funzione strumentale” (ibidem). La vocazione dell’impresa insomma, pur realizzandosi per mezzo del profitto, tende necessariamente ad andare oltre, nell’ottica di essere anzitutto un progetto a servizio dell’uomo, delle sue domande e dei suoi bisogni. Crepaldi spiega quindi che si tratta di un’applicazione della Dottrina sociale della Chiesa secondo cui il perseguimento del trascendente permette di ottenere anche dei risultati immanenti: una convinzione forte nell’insegnamento degli ultimi Pontefici (soprattutto Giovanni Paolo II e Benedetto XVI), eppure non ancora accompagnata da un’adeguata riflessione a livello pubblico. A seguire, il primo capitolo (“Un ‘ritorno’ al concetto d’impresa”, pagg. 11-49), chiarisce i fondamentali – proprio secondo una visione antropologica che pone al centro il valore della dignità della persona – che vanno sempre tenuti presente quando si tratta di studiare impresa, valori e profitto: Mion spiega al proposito che “l’obiettivo è quello di cogliere come anche la [categoria logica della] gratuità non sia estranea alla gestione dell’impresa né, tantomeno, alla fisiologia di quest’ultima o, meglio, alla sua struttura costitutiva” (pag. 12). Emerge qui chiaramente la presenza di quelle variabili metamateriali ma comunque centrali dell’attività umana, e quindi della persona, rispetto a cui l’aspetto meramente economico è ‘solo’ una dimensione – peraltro strumentale – dell’agire, a cui sono connesse molteplici altre. Per Mion occorre insomma ripensare l’ambito delle scelte economiche senza marginalizzare (la stessa crisi internazionale l’ha reso ormai evidente) le ‘opzioni di valore’, cioè le opzioni morali, “i cui effetti ed i cui moventi vanno ricercati oltre l’economico” (pag. 46). D’altra parte, è anzitutto all’interno di una visione complessa in cui valori economici e metaeconomici coesistono paritariamente che si può comprendere “la più profonda essenza aziendale, nella quale la socialità non rappresenta un ‘altro’ rispetto all’economicità, bensì ne costituisce qualificazione e completamento” (pag. 48). Il secondo capitolo (“Gratuità e gestione d’impresa”, pagg. 51-94), a firma di Loza Adaui, approfondisce invece le considerazioni dell’enciclica sociale di Benedetto XVI nell’ottica del magistero pontificio precedente, da Leone XIII a Giovanni Paolo II. Lo studioso si sofferma in particolare sul principio di gratuità e la logica del dono nell’analisi delle relazioni tra agenti economici spiegando come questi due punti “profondamente interconnessi tra loro, definiscono il cammino che può condurre ad un vero umanesimo integrale nella gestione imprenditoriale” (pag. 66). Beninteso, non si tratta qui di diminuire il legittimo ruolo del profitto nello sviluppo dell’attività imprenditoriale ma di dare invece più spazio “alla gratuità nella vita economica[argomentando consapevolmente] che questa è un’esigenza anche economica” (pag. 73). A margine si vede bene come la marginalizzazione della gratuità sia stata anche tra le cause della crescita della povertà in alcune aree del pianeta e come solo una sua adeguata ri-valorizzazione possa fornire soluzioni finalmente più condivise ai problemi attuali. Il terzo capitolo (“Le condizioni di sviluppo del ‘metaprofit’” (pagg. 95-157), ancora a firma di Mion, rivendica quindi l’insufficienza interpretativa della tradizionale classificazione tra imprese ‘profit’ e ‘non-profit’, da cui sorge “la necessità di guardare al cosiddetto metaprofit ed alle sue condizioni di sviluppo come fenomeno rilevante e significativo” (pag. 97) e suggerisce l’integrazione di nuovi elementi strategici quali (oltre alla gratuità e all’attenzione sul valore etico del metaprofit), la promozione del capitale umano (con un nuovo accento sulla dimensione della partecipazione soggettiva al lavoro), la rivalutazione di una visione d’insieme dell’impresa (che non sia il semplice frutto d’interessi individuali), infine “la promozione di politiche aziendali di comunicazione esterba improntate alla trasparenza ed alla partecipazione” (pag. 154).

Le pagine conclusive (“Tracce per una conclusione”, pagg. 159-162) mettendo in guardia dalle attuali visioni dell’uomo riduttive – ancorchè dominanti nel dibattito sulle teorie economiche – riportano l’attenzione sull’orizzonte della gratuità come natura propria e ineludibile dell’agire umano: “la gratuità è l’immagine – economica, si potrebbe dire – della carità e come tale è connaturata alla persona umana, in quanto recettore del dono e responsabile del dono; essa non è, dunque, un atteggiamento morale che l’uomo può assumere se accetta un particolare approccio valoriale, ma è dimensione propria della sua qualità antropologica creaturale” (pag. 161).

E se il paradigma della gratuità fosse antico quanto l’impresa?*

21 Nov

È possibile ipotizzare un agire aziendale ove siano presenti tracce di gratuità? Ovverosia, esiste un agire aziendale che non sia fondato esclusivamente sulla equivalenza dei rapporti di scambio, ma anche sulla reciprocità?

Questi interrogativi nascono oggi dalla constatazione che alcuni modelli teorici – indipendentemente dalla loro “fiducia” sulla bontà dell’impresa come soluzione delle aspettative umane – considerano esogeno ad ogni strategia e politica qualsiasi elemento irrazionale o irrazionalizzabile, ovverosia ogni elemento che non possa essere, prima o poi, catturato mediante categorie logiche strettamente economiche. In altri termini, tutto ciò che non può essere monetariamente apprezzato – o, forse, meglio “prezzato” – non rientra nel sistema di scelte aziendali.

Includere, ora, la gratuità in tale sistema di scelte rappresenta una sfida del terzo millennio, una nuova rivoluzione industriale, magari una visionaria teorizzazione meramente deduttiva che mina i paradigmi interpretativi della gestione aziendale o costituisce, più propriamente, un ritorno alla natura intrinseca dell’agire aziendale?

Si consideri, per un attimo, che sia una sovrastrutturazione teorica quella di rendere neutra l’impresa rispetto a valori non economici – magari dovuta ad un’ipotesi di studio necessaria per mettere a punto metodiche di analisi scientifiche – e non già un’evidenza fattuale del mondo aziendale. Ciò porterebbe ad annunciare che il paradigma della gratuità non è nuovo, bensì strutturale all’idea di impresa: diversi sono gli argomenti che paiono indirizzare verso questa conclusione.

Si consideri, in primis, la radice comunitaria dell’impresa, per la quale, alla base dell’agire sul mercato mediante la regolazione del valore di scambio, vi è un primigenio bisogno umano diffuso che si estrinseca in una società di persone, le quali accomunano una parte del proprio vivere per raggiungere fini condivisi. La contrattualizzazione del rapporto tra gli attori aziendali, dunque, non è che la regolazione civile di tale comunanza e la sua protezione da eventuali abusi di potere, comunque possibili ove l’agente è l’uomo, con le sue potenzialità ed i suoi limiti.

Tale prima notazione richiama, poi, la co-responsabilità dei soggetti aziendali: la distinzione di ruoli e funzioni nell’ambito dell’esercizio di impresa – anche in seguito al tipo di “apporto” che ad essa viene conferito – non fa venir meno la loro compartecipazione ad un progetto aziendale ed al rischio che esso non sia foriero dei frutti sperati. Tale co-responsabilità è basata sulla reciprocità dei comportamenti, ovverosia su un rapporto di scambio non pienamente predeterminato, che si traduce in azioni non totalmente “catturabili” mediante la misurazione economica e, in particolare, mediante prezzi-costo del lavoro, direttivo od esecutivo che sia.

Inoltre, va riconsiderata la base reciproca dello scambio di mercato, per la quale il valore di scambio – prezzo – pattuito non è mai effetto di un mero razionale calcolo, ma è il risultato di una “conciliazione” di valori, tra i quali trova posto pure la gratuità, seppur talvolta non estrinsecata. Tale base “irrazionale” dello scambio è palese quando provoca effetti deleteri: si pensi al caso in cui una delle parti contraenti operi nella deliberata ricerca della non equivalenza, con fini speculativi, ma sussiste anche – pur apparendo con meno urgenza – ove essa non sia finalizzata a scopi utilitaristici, ma assuma una diversa dimensione, altruistica o, quantomeno, reciproca.

Infine, pare necessario sottolineare il proliferare di manifestazioni aziendali deliberatamente reciprocitarie: quelle che, generalmente, vengono indicate come “aziende non profit” – per le quali vige comunque il vincolo di economicità – vedono strutturalmente il loro agire curvato da valori non economici, ora filantropici ora mutualistici ora socioculturali. Tali espressioni sono quantomeno coeve dell’impresa e sicuramente precedenti a qualsiasi espressione economica statale nel campo del welfare.

I brevi accenni suddetti vogliono palesare come la questione non sia quella di ipotizzare una “nuova impresa”, bensì quella di ritornare all’ontologia aziendale, ove la base “contrattualistica” dell’agire è sempre preceduta dalle fondamenta antropologiche delle scelte: ciò significa, in altri termini, includere la possibilità che tra i paradigmi di interpretazione dell’impresa vi sia anche quello della gratuità. Non c’è impresa se non c’è bisogno umano, se non c’è desiderio di socialità che genera esso stesso il bisogno di mettere in comune risorse e far loro assumere “valore nuovo” in quanto socializzate. L’aumento di tale valore non è mai a beneficio di una sola parte, nel momento in cui essa rinuncia alla propria individualità economica per entrare in una collettività economica: già questa rinuncia, pur andando anche a beneficio dell’individuo stesso, è gratuita. Infatti, nel momento in cui l’individuo entra in una società economica non può conoscere il beneficio che esso darà alla collettività di cui è parte, anche se non può non essere consapevole della sua esistenza: egli, dunque, non può misurare quanto offre e quanto avrà in cambio, ma irrazionalmente avverte la reciproca necessità di comunione, seppure in ambito prettamente economico.

*Testo originalmente pubblicato in: Giorgio Mion (2008) E se il paradigma della gratuità fosse antico quanto l’impresa?, Bollettino di Dottrina Sociale della Chiesa, IV(4), pp. 118-121.

Aziende “meta-profit” e società: verso nuove logiche di sviluppo*

21 Mar

La riconsiderazione dei “fondamentali” della gestione aziendale, tesa a riproporre la sua strumentalità rispetto alle finalità umane che ne promuovono le dinamiche, può condurre alla contemporanea promozione di valori sociali e del valore economico; in tal senso, il profitto – o, meglio, i risultati economici – non sono più “finalità” uniche dell’agire, ma strumento mediante il quale l’uomo pone in atto le premesse per la piena realizzazione propria e delle comunità sociali cui partecipa; tale osservazione prende maggiore enfasi se riferita a particolari realtà aziendali che, proprio per questa loro peculiare caratteristica, possono essere definite “meta-profit”.

Nell’ambito degli studi economico-aziendali così come nel linguaggio comune, è piuttosto diffusa la suddivisione del mondo aziendale tra “profit” e “non profit”; nella prima classe si inseriscono, tradizionalmente, le imprese che, operando nel mercato e per il mercato – ovverosia accettando ed uniformandosi alle regole di concorrenza in esso vigenti – tendono alla stabile realizzazione di un surplus di valore economico, esprimibile sinteticamente come differenziale tra ricavi e costi. Tale risultato economico esprime la capacità dell’impresa di remunerare adeguatamente coloro che, in varia misura, partecipano del rischio economico generale, apportando il capitale proprio; tale paradigma interpretativo resta valido, ovviamente, anche per quelle espressioni cooperative che prevedono l’apporto di lavoro o di altri fattori specifici della produzione. Il carattere distintivo della “classe” aziendale appare, cioè, la presenza di un certo rischio che esige di ottenere un vantaggio economico diretto, esprimibile mediante il metro monetario.

Nella seconda categoria – quella delle aziende “non profit” – si tende ad includere una ridda di realtà, spesso molto eterogenee tra loro per forma giuridica dell’ente gestore, modalità espressive e concrete caratteristiche gestionali; in linea di principio, sono definite “non profit” quelle realtà che perseguono tendenzialmente l’incremento del valore sociale, mediante interventi erogativi in vari ambiti di tipo sociale, culturale, solidaristico, ecc. Vengono solitamente considerate “non profit” le associazioni, le organizzazioni di volontariato, le ong, i comitati, i sindacati ed i partiti politici, ma anche le fondazioni private – nonché quelle di origine bancaria – e le cooperative sociali.

In merito a tale tradizionale – eppure discutibile – tassonomia, emergono sostanzialmente tre considerazioni critiche, nelle quali gli elementi di natura concettuale si intrecciano con le evidenze empiriche, tese a dimostrare come la complessa realtà fattuale non presenti una così chiara e netta suddivisione:

  1. le concrete modalità mediante le quali si esplica l’attività economica organizzata sono molteplici e non strettamente circoscrivibili entro una classificazione univoca che, pur costituendo uno strumento eminentemente scientifico di organizzazione dei saperi, può innegabilmente impedire la piena ed articolata comprensione di un fenomeno complesso, dinamico e multiforme come quello aziendale; in altri termini, la classificazione entro uno schema rigido dell’articolata fenomenologia aziendale comporta l’inevitabile rischio di trascurare la peculiare flessibilità e la poliedricità dello strumento aziendale – conseguente e non precedente l’enucleazione dei valori umani – nonché di effettuare un’analisi inficiata proprio dalla scelta dei suoi stessi strumenti;
  2. in seconda istanza, l’attività aziendale non può mai essere compresa se vista completamente avulsa dai valori umani rispetto ai quali è strumentale; la sistematicità di tali valori fa sì che la legittima aspirazione alla remunerazione del “rischio” insito nell’apporto del capitale – e, al limite, del lavoro – possa conciliarsi col perseguimento di finalità metaeconomiche o non economiche; l’uomo, nell’operare sistematicamente in campo economico, esplica, per sua ontologia, la propria persona, costituita di bisogni materiali come di istanze spirituali: è un puro esercizio di astrazione quello di concepire un’attività economica nella quale l’ideatore e l’operatore non trasfondano anche la propria concezione della vita, i propri principi ed il proprio “modo d’essere”;
  3. infine, l’osservazione della realtà fattuale pone in luce come lo sviluppo dei sistemi socio-economici occidentali negli ultimi decenni abbia condotto all’espansione di alcuni particolari mercati – o, meglio, pseudo-mercati – che, pur essendo di norma preclusi all’esercizio di attività imprenditoriali, per definizione “profit”, si prestano all’intervento di forme aziendali “ibride” rispetto alla classificazione poco sopra evidenziata; nonostante la difficile tassonomia nell’ambito di uno schema rigido, alle aziende “meta-profit” pertengono innegabili potenzialità di sviluppo sociale ed economico.

I succitati mercati riguardano, primariamente, la produzione e l’erogazione di servizi alla persona, ovverosia di quelle attività – relative all’assistenza socio-sanitaria e medica, all’educazione dell’infanzia, all’istruzione ecc. – che comportano l’immediata contiguità tra il soggetto produttore ed il beneficiario, tanto che l’efficacia delle performance aziendali è inscindibilmente legata all’efficacia di tale rapporto di collaborazione.

I fattori che hanno condotto alla crescita di tali spazi di mercato sono molteplici e si condizionano a vicenda; in particolare, vanno citate le dinamiche demografiche che registrano il tendenziale invecchiamento delle popolazioni dei Paesi occidentali, i flussi migratori nella direzione sud-nord, l’incremento delle risorse economiche a disposizione delle famiglie, la crisi dei sistemi pubblici di welfare nonché la loro progressiva delegittimazione, l’espansione del lavoro femminile e l’esterna­lizzazione di alcune prerogative educative tradizionalmente legate alle famiglie (Normann e Ramirez 1995), l’evoluzione delle preferenze di consumo, anche in un’ottica di attenzione verso la tutela dell’ambiente e della biodiversità, la diffusione di nuove forme di povertà urbana e l’emarginazione sociale che modificano i connotati delle società postindustriali (Bauman 2005).

I caratteri di tali pseudo-mercati sono spesso peculiari e differenziati; si pensi al forte legame che le aziende in essi operanti debbono istituire con le pubbliche amministrazioni, alle quali molto spesso compete il finanziamento delle attività mediante forme collaborative quali il contracting-out (Barbetta 1996). A ciò consegue, spesso, l’assenza di un prezzo formato in base alle normali logiche di mercato per la cessione dei prodotti che si traduce nella necessità di disinvestite la produzione a condizioni di “tariffa” o “prezzo politico”.

Inoltre, la destinazione “alla persona” dei servizi erogati impone forme di produzione labor intensive, fondate sul contributo di professionalità specifiche e di attitudini personali particolarmente sensibilizzate in merito alle problematiche degli utenti, nonché sulla già citata forte interazione soggettiva tra utente ed erogatore.

Accanto a queste realtà aziendali, non si possono trascurare anche le affioranti istanze di crescita di attività operanti in nicchie di mercato nelle quali difficilmente si insinua l’operare imprenditoriale ed alle quali vengono attribuiti spiccati caratteri di meritorietà sociale; a titolo meramente esemplificativo, si pensi alle attività di commercio “equo e solidale” con i Paesi in via di sviluppo e di turismo responsabile, a quelle relative alla ricerca medico-scientifica in settori ritenuti non sufficientemente remunerativi per lo sviluppo di prodotti cedibili sul mercato o, ancora, alla costituzione di istituti di istruzione e cultura.

Di conseguenza, tanto le politiche economiche a livello di Paese o di settore quanto le strategie aziendali non si possono fermare all’esclusiva considerazione delle realtà chiaramente classificabili nell’ambito della tassonomia profit/non profit; è, invece, necessario ripensare alle effettive potenzialità dello strumento aziendale per lo sviluppo sociale, oltreché economico, proponendo alcune linee alternative – o integrative – di analisi e conduzione della gestione aziendale (Zamagni e Bruni 2005). Non si tratta, ovviamente, di reinventare lo strumento, quanto di considerarne la flessibilità di applicazione e la versatilità, soprattutto avendo contezza della multiforme capacità umana di conciliare le proprie legittime istanze materiali con le altrettanto immancabili sollecitazioni di ordine spirituale e morale, in un sistema che consente la piena realizzazione della persona.

Emerge, di conseguenza, l’opportunità di potenziare e promuovere lo sviluppo di quelle realtà – che si potrebbero definire “meta-profit” e che operano prevalentemente nei “settori” poco sopra delineati – nelle quali, pur venendo riconosciuta la giusta e legittima funzione del profitto, l’attività economica si esplica in forme e in ambiti per i quali non vengono escluse finalità metaeconomiche. L’idea di base di tali aziende potrebbe, in altri termini, essere sintetizzata nella volontà di conciliare, in un reciproco alimentarsi, l’espansione del valore economico – ottenibile tramite un’accorta e sagace amministrazione delle risorse e dei processi produttivi – e la promozione dei valori sociali, quale efficace applicazione delle dinamiche gestionali (Tessitore 1995).

In tal senso, appare evidente come la “buona” e responsabile gestione delle aziende operanti nei settori dei servizi alla persona consenta la contemporanea realizzazione di due macro-obiettivi: la produzione di valore economico in misura adeguata a remunerare lo sforzo ed il rischio di coloro che apportano il capitale ed il lavoro, nonché la realizzazione di performance qualitativamente elevate, che permettono il soddisfacimento di bisogni socialmente “sensibili”, avvertiti da soggetti in condizioni spesso svantaggiate, quali anziani, malati e portatori di handicap psicofisici (Borgonovi 2000).

Una seconda istanza che pare emergere dalle brevi considerazioni precedenti riguarda la visione stessa dell’azienda, nel suo manifestarsi mediante processi strettamente economici; la natura stessa del fenomeno aziendale e la sua efficacia – non ultima quella rispetto al sistema socio-economico cui partecipa – sono strettamente legate alla sua essenza economica ed alla sua capacità di produrre valore. L’azienda, infatti, si realizza e si perpetua nel tempo nella misura in cui manifesta un proficuo circuito – oggettivato in termini di ricavi e costi – di input immessi nei processi produttivi e di output ottenuti e ceduti; la capacità dell’azienda di rigenerare in continuazione tale circuito la qualifica e la distingue quale strumento privilegiato dell’umano operare in campo economico, tanto che anche ricavi e costi tendono a misurare semanticamente la relazione tra sistema aziendale e sistema sociale (Catturi 1996).

La produzione e la distribuzione del valore mediante l’incessante susseguirsi dei suoi cicli gestionali sono gli elementi che permeano di socialità l’attività aziendale, rendendola potenziale mezzo per soddisfare i bisogni umani; una visione dell’azienda eccessivamente orientata alle performance dei titoli azionari – e, al limite, obbligazionari – sui mercati finanziari rischia di far degenerare la funzione aziendale e, nel contempo, di reprimere la capacità espressiva della fenomenologia aziendale non rivolta a tali scenari competitivi: appare evidente come le forme aziendali “meta-profit” siano costitutivamente escluse da simili mercati.

Tale mancato accesso ai mercati finanziari discende sia da questioni dimensionali sia, soprattutto, a causa della scarsa possibilità di ottenere performance adeguate rispetto agli standard imposti dal mercato stesso; inoltre, l’eccessiva concentrazione del risparmio verso investimenti di natura prettamente speculativa sottrae inevitabilmente alimento finanziario ad altre iniziative aziendali.

Infine, non può essere trascurata un’attenta analisi delle modalità di indagine relative alla valutazione delle performance aziendali, alle quali consegue anche la formulazione degli strumenti operativi ritenuti a tal fine maggiormente adeguati; i paradigmi interpretativi della gestione sono stati, nel tempo, impoveriti dalla stessa prassi rispetto ad alcuni aspetti che, sempre più, si presentano cruciali per garantire un durevole sviluppo aziendale e del sistema socio-economico cui l’azienda partecipa.

In particolare, i risultati economici non possono prescindere dalla considerazione di elementi qualitativi e temporali, quali la capacità di rispondere efficacemente alle istanze umane sottostanti l’attività produttiva, la durabilità dei risultati stessi, la sostenibilità dei processi economici in rapporto all’uso delle risorse disponibili, l’attitudine a diffondere cultura e sapere (Bruni 1999). Appare evidente come tali fattori scontino una difficile misurabilità e come la loro inclusione nell’analisi strategica ed operativa aziendale possa apparire difficile; nondimeno, va sottolineato che le potenzialità sociali ed economiche di ogni azienda transitano inevitabilmente attraverso una completa e sistematica considerazione degli intrecci esistenti tra la produzione del valore economico ed i riflessi di quest’ultimo sulla dinamica dei valori sociali.

* Testo originalmente pubblicato in: Giorgio Mion (2006) Aziende “meta-profit” e società: verso nuove logiche di sviluppo, Bollettino di Dottrina Sociale della Chiesa, II(2), pp. 4-11.