La riconsiderazione dei “fondamentali” della gestione aziendale, tesa a riproporre la sua strumentalità rispetto alle finalità umane che ne promuovono le dinamiche, può condurre alla contemporanea promozione di valori sociali e del valore economico; in tal senso, il profitto – o, meglio, i risultati economici – non sono più “finalità” uniche dell’agire, ma strumento mediante il quale l’uomo pone in atto le premesse per la piena realizzazione propria e delle comunità sociali cui partecipa; tale osservazione prende maggiore enfasi se riferita a particolari realtà aziendali che, proprio per questa loro peculiare caratteristica, possono essere definite “meta-profit”.
Nell’ambito degli studi economico-aziendali così come nel linguaggio comune, è piuttosto diffusa la suddivisione del mondo aziendale tra “profit” e “non profit”; nella prima classe si inseriscono, tradizionalmente, le imprese che, operando nel mercato e per il mercato – ovverosia accettando ed uniformandosi alle regole di concorrenza in esso vigenti – tendono alla stabile realizzazione di un surplus di valore economico, esprimibile sinteticamente come differenziale tra ricavi e costi. Tale risultato economico esprime la capacità dell’impresa di remunerare adeguatamente coloro che, in varia misura, partecipano del rischio economico generale, apportando il capitale proprio; tale paradigma interpretativo resta valido, ovviamente, anche per quelle espressioni cooperative che prevedono l’apporto di lavoro o di altri fattori specifici della produzione. Il carattere distintivo della “classe” aziendale appare, cioè, la presenza di un certo rischio che esige di ottenere un vantaggio economico diretto, esprimibile mediante il metro monetario.
Nella seconda categoria – quella delle aziende “non profit” – si tende ad includere una ridda di realtà, spesso molto eterogenee tra loro per forma giuridica dell’ente gestore, modalità espressive e concrete caratteristiche gestionali; in linea di principio, sono definite “non profit” quelle realtà che perseguono tendenzialmente l’incremento del valore sociale, mediante interventi erogativi in vari ambiti di tipo sociale, culturale, solidaristico, ecc. Vengono solitamente considerate “non profit” le associazioni, le organizzazioni di volontariato, le ong, i comitati, i sindacati ed i partiti politici, ma anche le fondazioni private – nonché quelle di origine bancaria – e le cooperative sociali.
In merito a tale tradizionale – eppure discutibile – tassonomia, emergono sostanzialmente tre considerazioni critiche, nelle quali gli elementi di natura concettuale si intrecciano con le evidenze empiriche, tese a dimostrare come la complessa realtà fattuale non presenti una così chiara e netta suddivisione:
- le concrete modalità mediante le quali si esplica l’attività economica organizzata sono molteplici e non strettamente circoscrivibili entro una classificazione univoca che, pur costituendo uno strumento eminentemente scientifico di organizzazione dei saperi, può innegabilmente impedire la piena ed articolata comprensione di un fenomeno complesso, dinamico e multiforme come quello aziendale; in altri termini, la classificazione entro uno schema rigido dell’articolata fenomenologia aziendale comporta l’inevitabile rischio di trascurare la peculiare flessibilità e la poliedricità dello strumento aziendale – conseguente e non precedente l’enucleazione dei valori umani – nonché di effettuare un’analisi inficiata proprio dalla scelta dei suoi stessi strumenti;
- in seconda istanza, l’attività aziendale non può mai essere compresa se vista completamente avulsa dai valori umani rispetto ai quali è strumentale; la sistematicità di tali valori fa sì che la legittima aspirazione alla remunerazione del “rischio” insito nell’apporto del capitale – e, al limite, del lavoro – possa conciliarsi col perseguimento di finalità metaeconomiche o non economiche; l’uomo, nell’operare sistematicamente in campo economico, esplica, per sua ontologia, la propria persona, costituita di bisogni materiali come di istanze spirituali: è un puro esercizio di astrazione quello di concepire un’attività economica nella quale l’ideatore e l’operatore non trasfondano anche la propria concezione della vita, i propri principi ed il proprio “modo d’essere”;
- infine, l’osservazione della realtà fattuale pone in luce come lo sviluppo dei sistemi socio-economici occidentali negli ultimi decenni abbia condotto all’espansione di alcuni particolari mercati – o, meglio, pseudo-mercati – che, pur essendo di norma preclusi all’esercizio di attività imprenditoriali, per definizione “profit”, si prestano all’intervento di forme aziendali “ibride” rispetto alla classificazione poco sopra evidenziata; nonostante la difficile tassonomia nell’ambito di uno schema rigido, alle aziende “meta-profit” pertengono innegabili potenzialità di sviluppo sociale ed economico.
I succitati mercati riguardano, primariamente, la produzione e l’erogazione di servizi alla persona, ovverosia di quelle attività – relative all’assistenza socio-sanitaria e medica, all’educazione dell’infanzia, all’istruzione ecc. – che comportano l’immediata contiguità tra il soggetto produttore ed il beneficiario, tanto che l’efficacia delle performance aziendali è inscindibilmente legata all’efficacia di tale rapporto di collaborazione.
I fattori che hanno condotto alla crescita di tali spazi di mercato sono molteplici e si condizionano a vicenda; in particolare, vanno citate le dinamiche demografiche che registrano il tendenziale invecchiamento delle popolazioni dei Paesi occidentali, i flussi migratori nella direzione sud-nord, l’incremento delle risorse economiche a disposizione delle famiglie, la crisi dei sistemi pubblici di welfare nonché la loro progressiva delegittimazione, l’espansione del lavoro femminile e l’esternalizzazione di alcune prerogative educative tradizionalmente legate alle famiglie (Normann e Ramirez 1995), l’evoluzione delle preferenze di consumo, anche in un’ottica di attenzione verso la tutela dell’ambiente e della biodiversità, la diffusione di nuove forme di povertà urbana e l’emarginazione sociale che modificano i connotati delle società postindustriali (Bauman 2005).
I caratteri di tali pseudo-mercati sono spesso peculiari e differenziati; si pensi al forte legame che le aziende in essi operanti debbono istituire con le pubbliche amministrazioni, alle quali molto spesso compete il finanziamento delle attività mediante forme collaborative quali il contracting-out (Barbetta 1996). A ciò consegue, spesso, l’assenza di un prezzo formato in base alle normali logiche di mercato per la cessione dei prodotti che si traduce nella necessità di disinvestite la produzione a condizioni di “tariffa” o “prezzo politico”.
Inoltre, la destinazione “alla persona” dei servizi erogati impone forme di produzione labor intensive, fondate sul contributo di professionalità specifiche e di attitudini personali particolarmente sensibilizzate in merito alle problematiche degli utenti, nonché sulla già citata forte interazione soggettiva tra utente ed erogatore.
Accanto a queste realtà aziendali, non si possono trascurare anche le affioranti istanze di crescita di attività operanti in nicchie di mercato nelle quali difficilmente si insinua l’operare imprenditoriale ed alle quali vengono attribuiti spiccati caratteri di meritorietà sociale; a titolo meramente esemplificativo, si pensi alle attività di commercio “equo e solidale” con i Paesi in via di sviluppo e di turismo responsabile, a quelle relative alla ricerca medico-scientifica in settori ritenuti non sufficientemente remunerativi per lo sviluppo di prodotti cedibili sul mercato o, ancora, alla costituzione di istituti di istruzione e cultura.
Di conseguenza, tanto le politiche economiche a livello di Paese o di settore quanto le strategie aziendali non si possono fermare all’esclusiva considerazione delle realtà chiaramente classificabili nell’ambito della tassonomia profit/non profit; è, invece, necessario ripensare alle effettive potenzialità dello strumento aziendale per lo sviluppo sociale, oltreché economico, proponendo alcune linee alternative – o integrative – di analisi e conduzione della gestione aziendale (Zamagni e Bruni 2005). Non si tratta, ovviamente, di reinventare lo strumento, quanto di considerarne la flessibilità di applicazione e la versatilità, soprattutto avendo contezza della multiforme capacità umana di conciliare le proprie legittime istanze materiali con le altrettanto immancabili sollecitazioni di ordine spirituale e morale, in un sistema che consente la piena realizzazione della persona.
Emerge, di conseguenza, l’opportunità di potenziare e promuovere lo sviluppo di quelle realtà – che si potrebbero definire “meta-profit” e che operano prevalentemente nei “settori” poco sopra delineati – nelle quali, pur venendo riconosciuta la giusta e legittima funzione del profitto, l’attività economica si esplica in forme e in ambiti per i quali non vengono escluse finalità metaeconomiche. L’idea di base di tali aziende potrebbe, in altri termini, essere sintetizzata nella volontà di conciliare, in un reciproco alimentarsi, l’espansione del valore economico – ottenibile tramite un’accorta e sagace amministrazione delle risorse e dei processi produttivi – e la promozione dei valori sociali, quale efficace applicazione delle dinamiche gestionali (Tessitore 1995).
In tal senso, appare evidente come la “buona” e responsabile gestione delle aziende operanti nei settori dei servizi alla persona consenta la contemporanea realizzazione di due macro-obiettivi: la produzione di valore economico in misura adeguata a remunerare lo sforzo ed il rischio di coloro che apportano il capitale ed il lavoro, nonché la realizzazione di performance qualitativamente elevate, che permettono il soddisfacimento di bisogni socialmente “sensibili”, avvertiti da soggetti in condizioni spesso svantaggiate, quali anziani, malati e portatori di handicap psicofisici (Borgonovi 2000).
Una seconda istanza che pare emergere dalle brevi considerazioni precedenti riguarda la visione stessa dell’azienda, nel suo manifestarsi mediante processi strettamente economici; la natura stessa del fenomeno aziendale e la sua efficacia – non ultima quella rispetto al sistema socio-economico cui partecipa – sono strettamente legate alla sua essenza economica ed alla sua capacità di produrre valore. L’azienda, infatti, si realizza e si perpetua nel tempo nella misura in cui manifesta un proficuo circuito – oggettivato in termini di ricavi e costi – di input immessi nei processi produttivi e di output ottenuti e ceduti; la capacità dell’azienda di rigenerare in continuazione tale circuito la qualifica e la distingue quale strumento privilegiato dell’umano operare in campo economico, tanto che anche ricavi e costi tendono a misurare semanticamente la relazione tra sistema aziendale e sistema sociale (Catturi 1996).
La produzione e la distribuzione del valore mediante l’incessante susseguirsi dei suoi cicli gestionali sono gli elementi che permeano di socialità l’attività aziendale, rendendola potenziale mezzo per soddisfare i bisogni umani; una visione dell’azienda eccessivamente orientata alle performance dei titoli azionari – e, al limite, obbligazionari – sui mercati finanziari rischia di far degenerare la funzione aziendale e, nel contempo, di reprimere la capacità espressiva della fenomenologia aziendale non rivolta a tali scenari competitivi: appare evidente come le forme aziendali “meta-profit” siano costitutivamente escluse da simili mercati.
Tale mancato accesso ai mercati finanziari discende sia da questioni dimensionali sia, soprattutto, a causa della scarsa possibilità di ottenere performance adeguate rispetto agli standard imposti dal mercato stesso; inoltre, l’eccessiva concentrazione del risparmio verso investimenti di natura prettamente speculativa sottrae inevitabilmente alimento finanziario ad altre iniziative aziendali.
Infine, non può essere trascurata un’attenta analisi delle modalità di indagine relative alla valutazione delle performance aziendali, alle quali consegue anche la formulazione degli strumenti operativi ritenuti a tal fine maggiormente adeguati; i paradigmi interpretativi della gestione sono stati, nel tempo, impoveriti dalla stessa prassi rispetto ad alcuni aspetti che, sempre più, si presentano cruciali per garantire un durevole sviluppo aziendale e del sistema socio-economico cui l’azienda partecipa.
In particolare, i risultati economici non possono prescindere dalla considerazione di elementi qualitativi e temporali, quali la capacità di rispondere efficacemente alle istanze umane sottostanti l’attività produttiva, la durabilità dei risultati stessi, la sostenibilità dei processi economici in rapporto all’uso delle risorse disponibili, l’attitudine a diffondere cultura e sapere (Bruni 1999). Appare evidente come tali fattori scontino una difficile misurabilità e come la loro inclusione nell’analisi strategica ed operativa aziendale possa apparire difficile; nondimeno, va sottolineato che le potenzialità sociali ed economiche di ogni azienda transitano inevitabilmente attraverso una completa e sistematica considerazione degli intrecci esistenti tra la produzione del valore economico ed i riflessi di quest’ultimo sulla dinamica dei valori sociali.
* Testo originalmente pubblicato in: Giorgio Mion (2006) Aziende “meta-profit” e società: verso nuove logiche di sviluppo, Bollettino di Dottrina Sociale della Chiesa, II(2), pp. 4-11.